La Mostra

Le origini di Jacopo e Domenico Tintoretto a Venezia

 

Jacopo e Domenico Tintoretto vissero in una città in costante fermento, custode delle proprie tradizioni e tuttavia sensibile agli stimoli esterni. Capitale editoriale d’Europa, Venezia promosse sia la riscoperta del sapere degli antichi che la diffusione delle più moderne conquiste scientifiche. In questo crocevia di culture e saperi i migliori editori e stampatori della città lavorarono fianco a fianco con scienziati, medici e anatomisti facendo di Venezia il cuore propulsivo della rivoluzione scientifica del Cinquecento.

 

Alcuni dei medici e chirurghi più famosi del tempo erano iscritti alla Scuola Grande di San Marco, dove esercitavano la medicina gratuitamente. Nata come confraternita in cui l’anima dei fradeli era purificata dalle ferite inferte dal flagello, la Scuola venne così a trasformarsi in luogo di cura, affiancando al conforto spirituale l’assistenza sanitaria per i più bisognosi. A ispirare le attività della Scuola furono i miracoli del loro santo patrono, San Marco, le cui gesta furono immortalate da Jacopo e Domenico Tintoretto in un grandioso ciclo pittorico di cui alla Scuola oggi rimangono solo le tele per la cappella. Ponendo lo studio del corpo alla base della loro arte, i due Tintoretto riuscirono a riplasmare la figura dell’Evangelista esaltandone la perfezione delle forme quale specchio delle sue prodigiose capacità curative.

 

È a partire dalla pluralità di funzioni della Scuola Grande di San Marco – luogo di cura, devozione e avanguardia artistica – che questa mostra esamina l’intreccio tra arte, fede e medicina nella Venezia di Tintoretto. Divisa in sette sezioni, la mostra indaga le relazioni tra attività devozionali, pratiche mediche, studi anatomici e rappresentazioni del corpo umano, soffermandosi su una varietà irripetibile di opere d’arte, tra cui dipinti, disegni, codici miniati, volumi illustrati, incisioni, matrici da stampa e strumenti chirurgici.

Scuola Grande di San Marco.
Medicina dell’anima e medicina del corpo

Fondata presso la chiesa di Santa Croce nel 1260-61, la Scuola Grande di San Marco fu una delle confraternite laiche più grandiose di Venezia. Al centro delle attività originarie della confraternita c’era la flagellazione, da cui il nome schuola di batudi, il cui obbiettivo era l’espiazione dei peccati attraverso l’imitazione delle sofferenze di Cristo. Alla cura dell’anima erano anche destinate le messe e le preghiere in suffragio dei defunti, e la preparazione degli infermi alla buona morte. Nel corso del XV secolo, periodo in cui la sede si trasferì a Santi Giovanni e Paolo (1438), la Scuola rinunciò gradualmente alla vocazione penitenziale per dedicarsi agli indigenti attraverso l’offerta di denaro, viveri, alloggi gratuiti e l’assegnazione di doti alle figlie di confratelli poveri.

Fin dalle origini, tra le varie forme di carità promosse dalla Scuola si distinse l’assistenza per i confratelli ammalati. Già nel XIV secolo la Scuola si dotò di un ospedale, trasferito nel Cinquecento dall’originario edificio a Santa Croce al nuovo in calle della Testa, nei pressi di Santi Giovanni e Paolo. L’ospedale, gestito da un Priore stipendiato dalla Scuola, ospitava alcuni confratelli poveri a cui erano garantiti vitto, alloggio e cure mediche. A svolgere questa mansione erano i medici (miedexi de fixicha) e i chirurghi (miedexi de piaga) della Scuola, che in cambio dell’ammissione gratuita offrivano visite private e medicinali. Nel XVI secolo, tra i medici più in vista della Scuola c’erano Nicolò Massa (1489-1569), medico e chirurgo di fama internazionale, e Tommaso Giannotti Rangone (1493-1577), poliedrica figura di medico, astrologo, filosofo, bibliofilo e committente artistico.

Da mito a storia: il ciclo della Cappella della Scuola Grande di San Marco

Il 28 dicembre 1585 Jacopo Tintoretto si impegnava con il Guardian Grande Pietro Verucci a dipingere il ciclo della nuova cappella della Scuola. L’accordo prevedeva che Tintoretto realizzasse i dipinti in cambio dell’ammissione alla confraternita del figlio Giovan Battista, del genero Marco Augusta (marito di Marietta), di Bartolomeo di Lorenzo sartor e di Angelo Girardi. Tintoretto non dipinse mai le tele della Cappella: i sei dipinti, dedicati alla predestinazione e ritorno del corpo di san Marco a Venezia, furono infatti eseguiti dal figlio Domenico attorno al 1587-92, periodo nel quale fu anche eletto tra gli ufficiali della Scuola.

Il 19 settembre 1612 Domenico otteneva la commissione della pala d’altare. Malgrado Domenico avesse promesso di eseguire l’opera con la stessa “diligentia et esquisitezza” già garantita dal padre, a più di un anno di distanza la Scuola fu costretta a indire un nuovo concorso. Il I giugno 1614, dopo aver visionato “diversi schizzi”, il Guardian Grande Girolamo Locadello affidava l’incarico a “Giacomo Palma [il Giovane]” per una somma di 200 scudi. A nulla valsero le proteste di Domenico e del conservatore della Scuola Perazzo Perazzi: entro il 28 gennaio 1615 la pala di Palma fu collocata sull’altare della Cappella.

 

Rimaste in sede fino alla soppressione della Scuola (25 aprile 1806), una volta diventate di proprietà demaniale furono spostate alla Biblioteca del Seminario Arcivescovile di Venezia (1817), e poi nella chiesa di Santa Maria degli Angeli di Murano (1866). Nel 1924 il Sogno di San Marco, al tempo attribuito a Jacopo Tintoretto, andò alle veneziane Gallerie dell’Accademia, mentre tra il 1936-48 quattro delle sei tele rimanenti furono date in deposito all’ex Scuola, nel frattempo convertita in Ospedale Civile. Due tele del ciclo sono andate perdute, e del loro soggetto rimane traccia in un inventario datato 14 aprile 1681: sulla parete occidentale “le navi che fanno il viaggio per Venetia con il corpo del predetto santo [Marco]” e sulla parete opposta una “fortuna di mare levatasi nel viaggio d’esse navi”, entrambe opere di “Domenico Tintoretto figliuolo del Tintoretto vecchio”.

1. Il sogno di San Marco

Descritto nell’inventario della Scuola del 1681 a lato dell’altare, il dipinto fu realizzato da Domenico Tintoretto tra il 1587-90, prima delle sette tele a essere eseguita. L’opera raffigura uno dei miti fondativi della città: la Predestinazione (Praedestinatio) del corpo di San Marco a Venezia. Secondo le cronache locali due-trecentesche, durante il viaggio da Aquileia a Roma San Marco fu costretto da una tempesta a cercare riparo sull’isola di Rialto. In quell’occasione l’Evangelista fu visitato in sogno da un angelo che gli preannunciò il ritorno delle sue spoglie in laguna a seguito del martirio che avrebbe subito ad Alessandria d’Egitto. L’episodio è ambientato sulle rive dell’antica isola di Rialto, dove su una barca cullata dalle onde San Marco sogna del suo destino. La luce sprigionata dall’angelo squarcia però le tenebre del sonno del santo per includere nella visione la laguna e i suoi antichi abitanti. In questo modo, da quinta scenica l’isola di Rialto diventa protagonista del vaticinio: il luogo, come preannunciato dall’angelo, dove i veneziani avrebbero costruito una meravigliosa città per proteggere e onorare le spoglie dell’Evangelista Marco.

2. San Marco benedice le isole veneziane

Eseguito da Domenico Tintoretto attorno al 1587-90, il dipinto è descritto nell’inventario della Scuola (1681) assieme al Sogno di San Marco, posti “uno per parte di detto Altare in Facciata”. L’opera è un unicum nella tradizione iconografica marciana, facendo della Scuola l’unico luogo in tutta Venezia a custodirne un esemplare. San Marco è posto al centro della composizione, ritto sulla barca, il braccio destro teso a benedire le isole che già una volta gli avevano offerto riparo. Dall’alto la colomba dello Spirito Santo discende luminosa sull’Evangelista, mentre quattro putti si apprestano ad accogliere in trionfo il santo martire consegnandogli dei rami di palma e ulivo. Ambientata a seguito del suo martirio, l’apparizione di San Marco sull’isola di Rialto ha il compito di rafforzare il messaggio della Predestinazione (Praedestinatio) e Traslazione (Translatio) del corpo del santo a Venezia. Nel rappresentare l’Evangelista che benedice le isole su cui sarebbe sorta la Serenissima, il dipinto svolge infatti la doppia funzione di certificare l’avverarsi del disegno divino e di legittimare il trafugamento da Alessandria d’Egitto delle spoglie del santo.

Trasporto del corpo di San Marco
alla nave veneziana

Primo episodio del ciclo della cappella, questo dipinto fu eseguito da Domenico Tintoretto attorno al 1590. Secondo l’inventario dei Quadri di Pitture della Scuola (1681) qui esposto, il dipinto fu collocato sulla parete a sinistra dell’altare assieme a una tela, oggi perduta, raffigurante “le navi che fanno il viaggio per Venetia con il corpo del predetto Santo [Marco]”. In primo piano troviamo Bono da Malamocco e Rustico da Torcello, i due leggendari mercanti veneziani che nell’828 trafugarono da Alessandria d’Egitto il corpo di San Marco, qui avvolto in un bianco sudario. Ai loro lati i custodi del tempio, Staurazio e Teodoro, vegliano sul furto in atto, mentre in lontananza la nave veneziana attende di condurre le reliquie del santo in patria, dove Dio le aveva predestinate. Il dipinto attualizza il mito della Traslazione (Translatio) del corpo di San Marco. Se infatti Bono e Rustico hanno dismesso le vesti antiche per indossare degli abiti cinquecenteschi, ancora più eclatante è il vessillo con il leone marciano che svetta dalla nave veneziana. San Marco, il cui corpo non è ancora giunto in laguna, è già elevato a santo patrono della città.

San Marco in gloria con i santi Pietro e Paolo

Descritto nell’inventario della Scuola del 1681 a lato dell’altare, il dipinto fu realizzato da Domenico Tintoretto tra il 1587-90, prima delle sette tele a essere eseguita. L’opera raffigura uno dei miti fondativi della città: la Predestinazione (Praedestinatio) del corpo di San Marco a Venezia. Secondo le cronache locali due-trecentesche, durante il viaggio da Aquileia a Roma San Marco fu costretto da una tempesta a cercare riparo sull’isola di Rialto. In quell’occasione l’Evangelista fu visitato in sogno da un angelo che gli preannunciò il ritorno delle sue spoglie in laguna a seguito del martirio che avrebbe subito ad Alessandria d’Egitto. L’episodio è ambientato sulle rive dell’antica isola di Rialto, dove su una barca cullata dalle onde San Marco sogna del suo destino. La luce sprigionata dall’angelo squarcia però le tenebre del sonno del santo per includere nella visione la laguna e i suoi antichi abitanti. In questo modo, da quinta scenica l’isola di Rialto diventa protagonista del vaticinio: il luogo, come preannunciato dall’angelo, dove i veneziani avrebbero costruito una meravigliosa città per proteggere e onorare le spoglie dell’Evangelista Marco.

Sbarco a Venezia del corpo di San Marco

La pala d’altare fu terminata da Jacopo Palma il Giovane nel gennaio del 1615 (1614 per il calendario veneziano), ultimo dipinto di una campagna decorativa che durò per più di vent’anni. Avvolto da un turbinio di nuvole e putti, Cristo discende su San Marco che con il leone attende la palma del martirio, segno della sua vittoria sulla morte. Ai due lati, i Santi Pietro e Paolo partecipano al glorioso avvenimento, il primo riconoscibile dalle chiavi della Chiesa e il secondo dalla spada, la cui elsa incrocia la firma dell’artista. Sotto la cortina di nubi si scorge una spettacolare veduta di Venezia, dove tra gondole, burchi, navi mercantili e la galera dogale (Bucintoro) svettano gli edifici più rappresentativi della città: le prigioni, il palazzo ducale, la basilica marciana, la torre dell’orologio, il campanile di San Marco, la Zecca e persino le due colonne in piazzetta con le statue di San Teodoro e del leone marciano. Nell’ambientare la consegna della palma del martirio a Venezia, e non più ad Alessandria d’Egitto dove San Marco fu martirizzato, il dipinto identifica nei veneziani il popolo eletto: il popolo a cui Dio ha dato in custodia le miracolose reliquie dell’Evangelista.

Tommaso Giannotti Rangone:
medico, confratello e mecenate artistico

Nato a Ravenna il 18 agosto 1493, Tommaso Giannotti si addottorò a Bologna in artibus et medicina nel 1516. Negli anni venti servì come medico e astrologo del conte Guido Rangone, che gli concesse di fregiarsi del suo cognome. Giunto a Venezia nel 1528, Tommaso si dedicò alla medicina diventando medico della flotta veneziana e consulente del Magistrato alla Sanità. L’agiatezza gli permise di dedicarsi alla stesura di trattati di medicina e prontuari igienici che gli valsero prestigio e popolarità. Divenne anche uno dei maggiori committenti del Rinascimento veneziano.

Tommaso entrò alla Scuola Grande di San Marco nel 1559. Medico, ancor prima che confratello, appena eletto Guardian Grande (1562) ordinò l’ispezione dell’ospedale della Scuola. Lo stesso anno Tommaso offrì ai confratelli “tre quadri con i miracoli del nostro santissimo protettore messer San Marco”: la Messa in salvo del corpo di San Marco e San Marco salva un saraceno durante un naufragio (entrambi alle veneziane Gallerie dell’Accademia) e i Miracoli di San Marco (Pinacoteca di Brera, Milano). Al tempo del loro svelamento (ca. 1566) le tele di Jacopo Tintoretto suscitarono scandalo per il modo in cui celebravano il legame tra Tommaso e l’Evangelista Marco. Lo stesso protagonismo caratterizzò anche l’offerta, mai realizzata, di collocare una statua di Tommaso in facciata al posto della Carità che a tutt’oggi sovrasta l’ingresso della Scuola.

 

Il 12 settembre 1577 la Scuola registrava la morte di “Tomaso da Ravena fo guardian grando”. Su indicazione dell’eccentrico testatario, medaglie, ritratti, disegni, strumenti astronomici e centinaia di libri furono esposti durante il corteo funebre in sua memoria. Tra i volumi c’era una sontuosa edizione del De humani corporis fabrica librorum Epitome di Andrea Vesalio (1543), che, come in occasione del funerale, in questa mostra è aperto alle tavole indicate nel testamento.

Peste: cure mediche e spirituali

Ai tempi di Jacopo Tintoretto Venezia fu flagellata dalla peste per ben nove volte. Così come al giorno d’oggi le istituzioni governative cercano di controllare lo scoppio di epidemie, allo stesso modo nella Venezia di allora si costituì una commissione con l’obbiettivo di diminuire gli effetti e la diffusione della peste.

 

Durante l’epidemia del 1486 la commissione fu elevata allo status di amministrazione sanitaria pubblica e, nel corso del secolo successivo, si estese fino a comprendere l’igiene urbana, la concessione di licenze ai medici, il controllo della qualità dell’acqua potabile e degli alimenti, nonché la regolamentazione delle prostitute e degli indigenti.

 

Nel Cinquecento l’amministrazione sanitaria istituì anche una rete di luoghi di quarantena per limitare la diffusione del morbo, quali case private, complessi residenziali, parrocchie, isole della laguna e due lazzaretti permanenti.

In aggiunta alle iniziative medico sanitarie istituite dal governo, dottori e medici professionisti si dedicarono all’indagine della peste.

Nuove teorie sulla trasmissione del morbo vennero a contrapporsi a quelle tradizionali, incolpando ora i cattivi odori, ora i miasmi dell’aria e persino i semi da questa trasportati.

 

Oltre alle cause, gli specialisti proponevano anche nuovi rimedi, pubblicandoli in trattati in latino, italiano e dialetto.

 

Parallelamente, i veneziani non mancarono però di invocare l’intervento divino attraverso rituali collettivi. Alla Scuola Grande di San Marco, per esempio, la flagellazione pubblica fu anche praticata per scongiurare la diffusione della peste.

 

In aggiunta, lo Stato organizzava delle preghiere e processioni in piazza San Marco, durante le quali si esibivano delle immagini votive come, per esempio, l’icona con la Madonna Nicopeia e, probabilmente, la tela con Venezia supplica la Vergine di intercedere con Cristo per fermare la peste di Domenico Tintoretto.

Anatomia e arte:
il corpo nel Rinascimento

Nel Medioevo si manifestò un nuovo interesse per le dissezioni anatomiche: nei conventi, per esempio, le salme delle suore erano scandagliate alla ricerca di segni di santità; in contesti di medicina legale, le vittime di omicidio erano sottoposte ad autopsie per determinarne le cause del decesso; nelle università, ogni anno dei cadaveri di criminali erano sezionati per motivi di studio. Le dimostrazioni di anatomia erano regolamentate dalle autorità civili e universitarie, e condotte da un professore che indicava al dissettore dove incidere sulla scorta dei testi antichi. Di norma, le dissezioni avvenivano nei teatri anatomici – inizialmente in quelli provvisori, poi in strutture permanenti – ma talvolta si svolgevano anche nelle case dei professori universitari, negli ospedali e nelle farmacie.

Indifferentemente da luogo in cui avvenivano, le dissezioni avevano lo scopo di approfondire le conoscenze di anatomia generale per sfruttarle durante gli interventi chirurgici e l’indagine patologica. Il progredire degli studi comportò una verifica degli studi antichi sul corpo anatomizzato, dando così inizio all’indagine sistematica della natura spesso associata alla così detta Rivoluzione scientifica.

 

Anche gli artisti si interessarono all’anatomia e alla rappresentazione del corpo umano, spesso enfatizzandone la vitalità, la dinamicità e la bellezza delle forme. Il loro contributo si può notare nei trattati anatomici, dove il dialogo tra scienza e arte dette alla luce capolavori come il De humani corporis fabrica di Andrea Vesalio (1543) o, nel secolo successivo, alle tavole anatomiche a colori di Girolamo Fabrici d’Acquapendente. A questi si aggiunsero i manuali di disegno, nei quali agli studenti era richiesto di sovrapporre la perfezione della statuaria classica alle imperfezioni del corpo evidenziate dagli anatomisti. Segno inconfondibile del dialogo tra arte e scienza, le rappresentazioni di ‘cadaveri animati’ portò a un incremento dello studio della natura e, anche grazie al ricorso di forme idealizzate, a una sempre maggiore curiosità dei lettori nei confronti del corpo umano.

L’anelo miracoloso di San Marco

Durante il rogo dell’11 agosto 976, il corpo di San Marco fu salvato dalle fiamme che divoravano la basilica marciana e riposto in un luogo segreto al suo interno. Ci vollero decenni prima che il nuovo edificio fosse completato, e con lo scorrere del tempo si perse memoria di dove il Santo fosse stato nascosto. Nel giugno del 1094, con la nuova basilica ormai pronta per la consacrazione, il doge Vitale Falier indisse tre giorni di digiuno seguiti da processioni pubbliche affinché l’Evangelista indicasse la sua sepoltura. Era il 25 giugno quando, tra le suppliche della folla riversatasi in basilica, da un pilastro vicino alla cappella di San Leonardo emerse il corpo del santo patrono di Venezia.

Tradizione vuole che in quell’occasione San Marco donasse il suo anello a Domenico Dolfin dalla Ca’ Grande, il quale aveva fatto voto di condividerne le proprietà curative con i devoti del Santo. Per secoli la reliquia fu custodita dai Dolfin, fino a che nel 1509 Lorenzo Dolfin la cedette alla Scuola di San Marco per 100 ducati. Da quell’anno, ogni 25 giugno i confratelli portavano l’anello in basilica tra una folla di infermi che, accorsi per commemorare l’Apparizione di San Marco, cercava una cura ai propri mali. Il 3 settembre 1574 la Scuola denunciava il furto di tutte le reliquie, compreso l’anello di San Marco. Di lì a poco si scoprì che il ladro, ignaro del valore del bottino, aveva fuso l’anello per ricavarne una manciata di ducati da un batioro di San Lio.

Smarrito l’anello, i confratelli decisero di commissionare a Domenico Tintoretto un telero che ne preservasse la memoria. Al posto dell’Apparizione di San Marco, la Scuola scelse però il dono a Dolfin, alternativa che Domenico studiò in un rarissimo bozzetto qui esposto.

Chirurgia tra scienza, arte e artigianato

Per tradizione, la differenza tra medicina e chirurgia risiedeva nel fatto che il medico curava i disturbi interni dell’organismo, quelli invisibili, mentre il chirurgo quelli esterni; in realtà, le due professioni spesso si sovrapponevano.

Così, per esempio, un medico poteva curare un ascesso attraverso la prescrizione di medicinali e di una dieta adeguata, mentre il chirurgo, magari su indicazione del medico stesso, ne drenava il contenuto e suturava la ferita.

L’attività del chirurgo consisteva sia nell’applicazione di salassi terapeutici che nel trattamento di fratture, distorsioni, dislocazioni, scottature, ferite e contusioni. La cura di queste patologie avveniva attraverso la prescrizione di una dieta, la somministrazione di farmaci e l’intervento manuale.

 

La pratica chirurgica pose anche le basi per i famosi trattati anatomici cinquecenteschi, in quanto gli anatomisti non solo avevano studiato chirurgia sui testi di Ippocrate e Galeno ma la praticavano con regolarità.

La capacità di combinare le conoscenze teoriche con quelle empiriche fu spesso utilizzata dai chirurghi per promuovere le proprie competenze e, soprattutto, per mettere in cattiva luce quelle dei barbieri (che esercitavano la bassa chirurgia), degli empirici (che vendevano medicinali) e delle guaritrici di paese che dispensavano rimedi fatti in casa.

 

Tra le innovazioni apportate dai chirurghi ci furono lo studio degli strumenti antichi e la creazione di nuovi. La nuova strumentazione fu pubblicata in volumi di piccolo e grande formato, permettendo così la circolazione delle innovazioni da loro introdotte tra i colleghi, i pazienti e persino tra gli artigiani incaricati di tradurre i progetti in realtà.

Nel combinare le necessità e competenze di chirurghi, intagliatori, stampatori e fabbri, il libro illustrato a stampa divenne così strumento e mezzo di innovazione tecnologica.

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